San Vito Lo Capo, sabbia dorata e mare cristallino. Appunti di viaggio

Appare così, all’improvviso, dietro una curva, dopo chilometri di roccia e mare. Una macchia verde si espande e contagia il blu fino a convertirlo a tinte più tenui, turchese, smeraldo, cobalto.Un arazzo di colori nuovi, intessuto di trame fitte di scogliere, sabbia e acqua, fino a perderci gli occhi. Un’isola ecco cos’è San Vito Lo Capo, una porzione di terra incastrata in una geografia di orchidee, palme nane, grotte, cale, e sentieri che si inerpicano da tutte le parti. Un’isola che galleggia fra Trapani e Castellammare del Golfo, in un saliscendi di emozioni che approdano su litorali che sembrano disegnati dalla mano di un bambino. La lunga spiaggia di San Vito brunita dal riverbero del sole, taglia in due la scena: da un lato il borgo con le case basse dei pescatori , gli alberghetti e la passeggiata con le trattorie all’aperto; dall’altra parte il faro, le torri di avvistamento del Seicento, le montagne che precipitano giù dal cielo in acrobatiche ombre che laccano il mare. La leggenda racconta di un eremita che alla fine del XV secolo si stabilì in questo paradiso, e in poco tempo la sua capanna divenne meta di pellegrini in cerca di consolazione. Nel 1450 c’era già la chiesa fortezza che si apre oggi su uno slargo che intercetta il passeggio sul corso principale fra gelaterie e bar coi tavolini sui marciapiedi. E’ bello perdersi fra i vicoletti del borgo che odorano di gelsomino e ritrovarsi quasi per incanto in riva al mare, con le palme che segnano la baia e rilanciano altre prospettive alla prima virata del paesaggio. Oppure indugiare fra le casette bianche del centro aggredite da esplosioni di buganvillee bianche e rosse e godersi la frescura della sera che dal mare giunge fra i budelli di San Vito dopo avere spiegato al vento granpavesi di panni stesi ad asciugare sui terrazzi imbiancati di calce. Il lungomare è un balcone affacciato sulla costa Gaia, tre chilometri di sabbia punteggiata di granelli di corallo che scintillano al sole come scaglie di rubini. In fondo c’è la vecchia tonnara sul golfo del Secco, al centro dell’antica terra di Cetaria di cui parlavano i latini per indicare i tonni. Archeologia industriale, con i manufatti che fino al 1969 videro le gesta eroiche di ciurme e di rais alle prese con più grossi pelagici del Mediterraneo.
Ed è seguendo questa linea di confine che si raggiunge la riserva naturale dello Zingaro, un crescendo di palpitante suggestione sulle tracce di una natura che si trasforma metro dopo metro.
zingaro

La direzione è Scopello, un filo di perle lungo quasi sette chilometri da percorrere a piedi, con lo sguardo diviso fra il mare e le montagne, alcune alte anche 900 metri, assaltate dalla macchia mediterranea. Nel casolare ristrutturato di una vecchia tonnara, sono in mostra i resti di alcuni manufatti di pesca e, in miniatura, le reti e la camera della morte. Alla grotta dell’Uzzo, uno dei primi insediamenti preistorici della Sicilia, si arriva attraverso una pista di mulattiere scolpita fra distese di sommacchi e solitari carrubi. In basso, fra fichidindia e ginestre, si apre la spiaggetta dell’Uzzo. Il museo della civiltà contadina è una sosta fondamentale per comprendere le origini di questo territorio. All’interno, attrezzi di antichi mestieri dipingono un acquarello di tradizioni che la riserva vuole recuperare: il miele, la raccolta del grano, le tecniche di utilizzo delle fibre vegetali (palma nano, canna, giunco). La vegetazione cambia di continuo: frassino da manna, erba di San Giovanni, orchidee, cavoli selvatici, fiordaliso, zafferano. Con un po’ di fortuna si possono fare incontri straordinari: su queste cime sono di casa il falco pellegrino, l’aquila di Bonelli, l’aquila reale La Cala di Punta della Capreria è l’ultima gemma di questa lucente collana di smeraldi. Tappeti di lentisco, bocche di leone, euforbia, margherite ricoprono il fiordo delimitato da banchi di calcare dolomitica; in certi punti il mare si confonde col prato rilanciando striature di luce che si perdono fra i fiori. Da qui i faraglioni di Scopello sembrano navi di roccia pronte a salpare.

Giacomo Pilati